Riutilizzo: in Italia 60mila operatori senza diritti, si valuta istanza alla Cedu

A sottolinearlo è Alessandro Stillo di Rete ONU: "Purtroppo il riutilizzo, nonostante sia in cima alla gerarchia dei rifiuti e nonostante sia continuamente citato nelle norme secondarie, nei piani di gestione e nei decreti ministeriali, continua ad essere ignorato o bistrattato". Questo condanna decine di migliaia di famiglie a lavorare sotto ogni livello di dignità, nonostante il loro grande apporto all’utilità collettiva. Severino Lima Junior: "Valutiamo un’istanza presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo"

In Italia esistono circa 60.000 operatori vulnerabili che raccolgono e rivendono beni usati garantendo un volume di riutilizzo di oltre 200.000 tonnellate annue. Tutti beni durevoli sottratti ai rifiuti e quindi oggetto di un’attività dal grande apporto ambientale. Eppure i diritti di questi lavoratori non sono riconosciuti.

A lanciare il grido d’allarme è Alessandro Stillo, Portavoce Nazionale di Rete ONU, associazione di categoria italiana degli operatori della seconda mano, che spiega: “Purtroppo il riutilizzo, nonostante sia in cima alla gerarchia dei rifiuti dettata dalla norma europea e nazionale e nonostante sia continuamente citato nelle norme secondarie, nei piani di gestione dei rifiuti così come nei decreti ministeriali, continua ad essere ignorato o bistrattato nella realtà dei fatti. Non solo quando si elaborano i modelli e si programmano le operazioni, ma addirittura quando si compiono le analisi del contesto specifico. Un esempio lampante l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Raee, che stigmatizza il lavoro degli ‘svuotacantine’ che recuperano elettrodomestici, bollando i cittadini che vi fanno ricorso come poco virtuosi. La realtà è che in Italia il riutilizzo avviene proprio grazie agli svuotacantine e agli altri operatori dell’usato non coinvolti dalle istituzioni e dalle politiche ambientali. Se non ci fossero loro, il riutilizzo semplicemente non si farebbe“.

“Oggi il riutilizzo avviene in buona parte in modo informale – prosegue Stillo – e questo è l’inevitabile frutto di un’evoluzione normativa che negli ultimi venticinque anni non ha tenuto in alcun conto la nostra realtà settoriale. Eppure, da quindici anni, Rete ONU promuove soluzioni di regolarizzazione e in alcuni casi queste sono diventate proposte di legge. L’inefficienza della macchina legislativa ha però reso impossibile la conclusione degli iter e chi fa riutilizzo continua a doverlo fare in un quadro di regole inappropriato che fomenta l’illegalità invece di risolverla“.

Il caso dei Raee


I Raee sono un caso emblematico. Come si comportano i cittadini con i dispositivi elettrici ed elettronici di cui si vogliono liberare e dove vanno a finire una volta che sono stati buttati via?

Secondo l’Osservatorio Ipsos in Italia meno del 40% dei Raee sono avviati a filiere di recupero dei rifiuti tracciate, trasparenti e pienamente sostenibili, ovvero le filiere organizzate dai produttori nel quadro del regime di Responsabilità Estesa del Produttore. Una carenza che ha determinato nel 2024 una procedura d’infrazione Ue contro l’Italia per non aver raggiunto gli obiettivi comunitari di recupero.

Gran parte del problema è l’inadeguata classificazione dei rifiuti conferiti ai sistemi di raccolta comunali, ma l’Osservatorio punta il dito anche contro un altro fenomeno: le deviazioni alle cosiddette filiere “informali“, che avvengono a monte delle raccolte comunali. Come detto, l’Osservatorio lo bolla come un comportamento non virtuoso, che va assolutamente contrastato. Non si tiene però conto di un fatto fondamentale, dice Rete ONU: gli svuotacantine, così come i soggetti vulnerabili che si avvicinano ai cittadini presso i centri di raccolta, intercettano una larga fetta del riutilizzo italiano che ammonta annualmente a circa mezzo milione di tonnellate.

Emergere dall’informalità

Il fenomeno dell’informalità è storicamente al centro delle istanze di Rete ONU, che negli ultimi 15 anni ha redatto numerose di proposte di legge per regolarizzare e integrare al sistema formale l’attività degli operatori vulnerabili. L’obiettivo è quello di farli emergere attraverso la tracciabilità, l’iscrizione ad albi professionali ed accordi operativi con i Comuni che consentano di conferire in modo corretto il residuo non riutilizzabile raccolto presso le utenze domestiche. Nel 2012 la Rete aveva anche avviato una sperimentazione con Utilitalia, associazione di categoria delle aziende di igiene urbana, con l’obiettivo di regolarizzare e coinvolgere nel sistema questi operatori. Sulla stessa logica è stato disegnato il “Modello Contarina-Occhio del Riciclone” finalizzato a massimizzare i livelli di riutilizzo territoriali.

Ognuno di questi percorsi però è quasi morto in partenza, sottolinea Rete ONU, per l’indisponibilità degli stakeholder formali ed istituzionali ad applicarne i principi nella pratica. Ad oggi né gli organismi dei produttori né i Comuni portano avanti o promuovono significative attività di riutilizzo.

Istanza alla Cedu

Severino Lima Junior, Presidente dell’Alleanza Internazionale dei Waste Pickers, annuncia he si stanno valutando delle azioni legali: “In Italia la stigmatizzazione e mancanza di riconoscimento degli operatori vulnerabili del recupero ha raggiunto livello allarmanti e persiste nonostante da molti anni le istituzioni siano perfettamente a conoscenza del fenomeno e delle soluzioni per risolverlo. Questo condanna decine di migliaia di famiglie a lavorare sotto ogni livello di dignità, nonostante il loro grande apporto all’utilità collettiva dato dalla loro attività di riutilizzo. Abbiamo sottoposto la questione al nostro team di avvocati, per valutare un’istanza presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo“.

Articolo precedenteTorino, 25,8 milioni per Aurora e Barriera di Milano tra verde e mobilità sostenibile
Articolo successivoRoma, monitoraggio di 83.500 alberi con il sistema Digital Twins per la gestione del verde urbano