La pubblicazione del Dl Transizione 5.0 in Gazzetta Ufficiale riapre il dibattito sulle regole che definiscono le aree idonee destinate all’installazione di impianti da fonti rinnovabili. In una nota congiunta, Greenpeace, Kyoto Club, Legambiente e Wwf Italia evidenziano come il provvedimento, pur introducendo alcune modifiche al sistema vigente, presenti avanzamenti limitati rispetto al d.lgs. 199/2021 e rischi di generare nuovi problemi applicativi. Secondo le associazioni, l’uso dello strumento del decreto-legge per intervenire su un quadro in revisione con decreto legislativo crea sovrapposizioni istituzionali che possono accentuare l’incertezza normativa, condizione che incide negativamente sulla capacità di investimento del settore.
Le osservazioni sul metodo normativo e sulla coerenza del quadro regolatorio
Le organizzazioni sottolineano l’anomalia istituzionale nel modificare norme sulle rinnovabili attraverso un decreto-legge mentre è in corso la revisione del d.lgs. 190/2024 mediante decreto legislativo. Questa duplicazione di sedi decisionali rischia di rendere la regolazione più frammentata, con passaggi non armonizzati e un quadro generale privo di coerenza sistemica. L’approccio adottato separa la questione delle aree idonee dal contesto complessivo della transizione energetica, producendo un insieme di norme che non rispecchia una visione unitaria.
Il nodo del rapporto tra aree idonee e aree di accelerazione
Le associazioni rilevano che, nonostante alcuni miglioramenti, resta irrisolta la definizione del rapporto tra aree idonee e aree di accelerazione. Il rischio, secondo l’attuale impianto normativo, è che la selezione delle aree idonee da parte delle Regioni diventi un punto di blocco anche per le aree con tempistiche accelerate stabilite a livello europeo.
Le modifiche introdotte dal decreto non sembrano chiarire la questione e potrebbero aumentare le tensioni tra amministrazioni centrali e locali.
I punti accolti positivamente
Il decreto stabilisce che le Regioni non possono restringere le aree idonee rispetto a quanto definito dallo Stato né imporre divieti generali all’installazione di impianti da fonti rinnovabili. Le associazioni considerano questo passaggio un elemento utile per evitare situazioni in cui, come accaduto in Sardegna, il 99% delle superfici regionali veniva escluso dalla possibilità di ospitare impianti.
Le criticità sulle aree agricole e sull’agrivoltaico
Tra le principali criticità segnalate figura la mancata applicazione dell’estensione del 20% dell’area occupata agli impianti fotovoltaici a terra situati in zone agricole. Le associazioni ritengono necessario distinguere tra terreni produttivi e non, come quelli limitrofi ad aree industriali o di bonifica. Viene inoltre indicata come limitante la nuova definizione di impianto agrivoltaico, prevista per i soli impianti sospesi da terra. Secondo le associazioni, gli impianti agrivoltaici dovrebbero essere valutati a partire dalle colture e non dalla tecnologia, adattando i layout produttivi alle esigenze agricole e non viceversa.
Le distanze dai siti industriali e le incoerenze tra tecnologie
Il decreto prevede una fascia di 350 metri intorno ai siti industriali e commerciali, che diventa di 500 metri per il biometano. Le associazioni considerano incomprensibile la differenza tra le due tecnologie e sottolineano l’eccesso di dettaglio nella specificazione relativa agli impianti all’interno degli stabilimenti industriali, ritenuta superflua e non coerente con la distinzione tra fotovoltaico a terra e agrivoltaico.
Le esclusioni dalle infrastrutture ferroviarie e stradali
Le nuove regole non includono come aree idonee le fasce fino a 500 metri dalle linee ferroviarie per gli impianti solari, previsione presente sotto il Governo Draghi, mentre il limite dei 300 metri dalle autostrade è ritenuto eccessivamente restrittivo. Mancano inoltre riferimenti alle superstrade e ad altre arterie rilevanti.
L’intervallo 0,8%–3% della Sau e il limite ritenuto irrazionale
Le associazioni giudicano irrazionale la previsione secondo cui le aree idonee non possano essere inferiori allo 0,8% della Sau ma nemmeno superare il 3%. Secondo le organizzazioni, un limite massimo rigido non tiene conto delle differenti vocazioni agricole dei territori né del diritto degli agricoltori a migliorare redditività e condizioni di lavoro. Il settore agricolo, già colpito dagli effetti della crisi climatica, necessita di strumenti reali di adattamento, non di vincoli formali sulle percentuali di superficie.
Le restrizioni per i beni tutelati e le implicazioni per le Cer
Preoccupa infine la fascia di rispetto di 3 km dai beni culturali e paesaggistici, pur ridotta rispetto ai 7 km iniziali. Le associazioni chiedono che tali aree siano considerate ordinarie e che vengano esplicitati i riferimenti ai piani paesaggistici vigenti. Viene inoltre segnalato il rischio che la norma penalizzi impianti in autoconsumo e comunità energetiche rinnovabili, realtà di piccola scala con ruolo sociale e ambientale rilevante. In questo senso, il decreto è ritenuto un passo indietro, anche in termini economici.











