Viaggio a Chernobyl: 33 anni dopo il disastro nucleare

Da Pripyat a Chernobyl passando per la centrale Lenin. Il racconto di un viaggio fuori dal normale per documentare quello che resta del disastro nucleare del 26 aprile 1986

Ore 7 di una buia e fredda mattina di fine ottobre a Kiev. L’appuntamento è alla stazione di Kyiv-Pasazhyrskyi. Ad accoglierci ci sono due ragazzi e un furgone non troppo scassato. Soliti convenevoli, pausa caffè e si parte. Destinazione Chernobyl, o quello che resta dopo l’incidente nucleare del 26 aprile 1986.

Assonnati e infreddoliti cominciamo a conoscerci. Sul furgone ci sono due bielorussi, un ceco, una slovacca, un kazako, un messicano, un peruviano, una tedesca, un inglese e tre italiani. Insomma gente da tutto il mondo per un viaggio davvero singolare. C’è chi bolla questo tipo di turismo come macabro ma nella sostanza è un viaggio come gli altri. Certo, non ci sono nessun resort con piscina e nessun braccialetto per l’all-inclusive che ti aspettano all’arrivo. Lo spirito di chi si avventura verso il confine con la Bielorussia non è quello della festa, del relax o della tanto cara fuga dalla città, ma è quello di chi vuol vedere, documentare e capire che cosa accade dopo un disastro nucleare.

Nelle tre ore di viaggio fuori dai finestrini scorre via l’Ucraina. Grandi spazi aperti, poche fabbriche, villaggi e borghi che trasudano fatica e povertà. A un tratto un posto di blocco dei militari. La nostra guida ci avvisa che siamo quasi arrivati, al di là della sbarra c’è la nostra meta. Qualche minuto di attesa, dicono.

I minuti si trasformano in ore. I militari sono nervosi ma gentili, ci lasciano attraversare il check point per andare in bagno. Le informazioni sono scarse. Alla fine, dopo più di due ore e l’ennesimo controllo dei passaporti, passiamo. Mentre ci dirigiamo verso Pripyat la guida ci spiega che, a causa delle tensioni con la Russia, dal Donbass alla Crimea è salito il livello di guardia dei militari che presidiano l’unica strada d’accesso alla centrale nucleare. “È la guerra che si avvicina” dice la guida. Forse non ha tutti i torti.

Il furgone si ferma sotto la scritta che dà il benvenuto a Pripyat, la città di 50 mila abitanti che fu evacuata il 27 aprile 1986, il giorno dopo l’esplosione del reattore 4. Una cittadina nuova di zecca, creata nel 1970 per ospitare prima le maestranze che realizzarono la centrale nucleare ­- lontana qualche chilometro – e poi i lavoratori con le loro famiglie.

Era, dice la guida, il posto migliore dove vivere sotto il regime sovietico. Costruita con i migliori standard e pensata come la città del futuro.

Scendiamo tutti dal furgone e gironzoliamo curiosi nel grande incrocio alle porte della città. A un certo punto la guida tira fuori il suo contatore Geiger e ci fa vedere come nell’aria non si registri alcun tipo di radioattività (se non quella normale che emette la Terra pari a 0,1 µSv/h. Il Sievert è l’unità che misura gli effetti e il danno provocato dalla radiazione su un organismo). Ma avvicinandolo al terreno, agli alberi, ai binari della vecchia ferrovia abbandonata o ai segnali stradali i valori di radioattività cominciano a salire: 7 µSv/h è la radiazione emessa dal segnale che avverte che ci stiamo addentrando in una zona radioattiva. Nulla di pericoloso per la salute se ci si passa qualche ora, all’incirca le stesse radiazioni di una panoramica e meno di una radiografia al torace.

Risaliamo ed entriamo a Pripyat. Una città fantasma. Grandi palazzi abbandonati sfilano fuori dal finestrino. Dopo quasi 33 anni la natura si è ripresa gli spazi e i colori dell’autunno creano una atmosfera quasi romantica. Ma è tempo di visitare la città e la guida ci ricorda per l’ennesima volta di “non mangiare e leccare nulla”.

Scendiamo, entriamo in una scuola, poi in una piscina, poi nel cinema, nel bar sul fiume e nel parco divertimenti che doveva essere inaugurato il 1° maggio 1986, quattro giorni dopo il disastro. Proviamo ad addentrarci nel cuore di Pripyat. Non abbiamo una mappa, gli unici punti di riferimento sono le maestose falci e martello che dominano gli alti edifici degni del miglior brutalismo sovietico e le urla della nostra guida.

Entrando nei palazzoni che non fanno parte del tour, non si vede quasi nulla. Calcinacci, vetri rotti, qualche arredo arrugginito, è evidente che la città è stata saccheggiata. Termosifoni divelti, sanitari sradicati come gli impianti elettrici. Ogni tanto si notano mucchi di bottiglie vuote di birra e vodka, segni inconfondibili del passaggio dell’uomo.

Si riparte. Prossima tappa la centrale nucleare che porta il nome di Lenin. Mentre ci si avvicina, la guida spiega che nel raggio di 10 chilometri attorno alla centrale è vietata qualsiasi attività umana perché l’area è ancora pesantemente inquinata, mentre dai 10 ai 40 chilometri con qualche accorgimento si può vivere. Queste sono le regole imposte dai militari ucraini che regolamentano la Zona di Esclusione, mentre dall’altro lato del confine la Bielorussia ha deciso di creare un parco nazionale chiamato Riserva Radioecologica di Polesie.

Avvicinandosi alla centrale si nota la nuovissima copertura del reattore 4, entrata ufficialmente in funzione nell’estate 2018 e che, secondo il team internazionale di esperti che l’hanno progettata e realizzata, dovrebbe bloccare qualsiasi emissione di radiazioni per i prossimi 200 anni. Attorno, gli altri tre reattori che hanno continuato a funzionare fino al 2000, quando l’ultimo reattore (il numero 3) fu messo in shutdown. Più in la i reattori 5 e 6 che non sono mai entrati in funzione. La sosta è breve, perché oltre al monumento in memoria degli eroi che bloccarono il disastro e ai lavoratori che entrano ed escono dalla centrale, non c’è nient’altro da vedere.

La tappa successiva è il Picchio, ossia una enorme antenna alta 150 metri e lunga quasi un chilometro costruita dai sovietici alla fine degli anni ’60 per ascoltare e disturbare le comunicazioni radio di tutto il mondo. Con la caduta dell’Unione Sovietica il Duga.

Ultima tappa Chernobyl, ma prima un bel giretto sotto uno strano marchingegno che rivela se siamo contaminati o meno. Tutto a posto e si prosegue. Arriviamo nell’unica cittadina abitata della zona, dove vivono i lavoratori della centrale nucleare in via di dismissione (per gli esperti ci vorranno altri 199 anni, ma è evidente che è un calcolo astratto). Attualmente conta circa mille abitanti, un museo che apre una volta all’anno il 26 aprile, palazzine dormitorio, un paio di bar che svolgono la funzione di taverne e alimentari, tre alberghetti nei quali i turisti possono soggiornare, una stazione di polizia e una caserma dei pompieri: i veri eroi del disastro nucleare, insieme ai minatori che scavarono il tunnel per bloccare il magma radioattivo che correva veloce verso la falda e che avrebbe inquinato il fiume Dnepr e in poche settimane tutto il Mar Nero e il Mediterraneo. Parola di Mikhail Gorbaciov.

In memoria di quello che fu il disastro nucleare, nella piazza centrale del paese è stata eretta una statua che rappresenta un angelo intento a suonare un corno. Un riferimento al passaggio dell’Apocalisse (Rivelazione 8,10 – “Il terzo angelo suonò la tromba e cadde dal cielo una grande stella, ardente come una torcia, e colpì un terzo dei fiumi e le sorgenti delle acque”). Ai piedi dell’angelo una lunga distesa di croci bianche e nere sulle quali sono iscritti i nomi delle città e dei villaggi ucraini e bielorussi scomparsi dopo il disastro nucleare.

A più di 30 anni dalla tragedia, il calcolo delle morti dirette e indirette non è certo, così come il numero di persone colpite da malattie sopraggiunte a causa della contaminazione. Secondo uno studio di Greenpeace, quando ricorderemo i 70 anni del disastro nucleare, nel 2056, i decessi riconducibili all’esplosione del reattore 4 saranno 6 milioni.

Intanto le campagne nella Zona di Esclusione tornano a essere abitate dai profughi del conflitto nel Donbass. Gente che prova a ricostruirsi una vita in queste terre attirata dal bassissimo costo della vita e dall’altrettanto basso sussidio (poco meno di 30 euro al mese) che il governo ucraino elargisce a chi sceglie di vivere qui.

Preferisco morire tra vent’anni che con i miei figli sotto le bombe” è stato il commento di una giovane donna incontrata in un bar a Chernobyl prima del rientro a Kiev.