L’industria della moda continua a sfruttare i lavoratori e a generare enormi impatti ambientali | Nuovo report Greenpeace

Le aziende del fast fashion promuovono la loro presunta sostenibilità e il rispetto di migliori condizioni di lavoro dichiarando nelle etichette che i loro capi d’abbigliamento sono prodotti in modo  sostenibile. Spesso si tratta però solo di greenwashing, come rivela il nuovo rapporto di Greenpeace Germania “Greenwash danger zone. 10 years after Rana Plaza fashion labels conceal a broken system”, diffusoo in occasione del decimo anniversario del disastro di Rana Plaza in Bangladesh, in cui persero la vita più di mille persone

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Le aziende del fast fashion promuovono la loro presunta sostenibilità e il rispetto di migliori condizioni di lavoro dichiarando nelle etichette che i loro capi d’abbigliamento sono prodotti in modo  sostenibile. Spesso si tratta però solo di greenwashing, come rivela il nuovo rapporto di Greenpeace Germania “Greenwash danger zone. 10 years after Rana Plaza fashion labels conceal a broken system”. Il rapporto è stato diffuso nei giorni scorsi in occasione del decimo anniversario del disastro di Rana Plaza in Bangladesh, in cui persero la vita più di mille persone, svelando al mondo cosa si cela dietro la moda a basso costo.

“Dieci anni dopo la tragedia di Rana Plaza, l’industria della moda continua a sfruttare i lavoratori e a generare enormi impatti ambientali”, dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. “Oggi proliferano sul mercato vestiti che le stesse aziende del fast fashion etichettano come eco, green, sostenibili, giusti, ma il più delle volte è solo greenwashing. Si  pubblicizza una sostenibilità inesistente mentre in realtà sono in costante aumento gli abiti fatti di plastica usa e getta derivante dal petrolio, non riciclabili e per lo più prodotti in condizioni di lavoro inaccettabili”.

Il rapporto di Greenpeace Germania ha svelato quel che si nasconde dietro la presunta sostenibilità di alcune etichette di noti marchi internazionali, controllando la veridicità delle informazioni riportate nelle etichette dei capi d’abbigliamento. Nell’indagine sono state controllate le iniziative di ventinove aziende (H&M, Zara, Benetton, Mango etc.) che aderiscono alla campagna Detox – lanciata nel 2011 da Greenpeace per azzerare le emissioni di sostanze chimiche pericolose nelle filiere tessili – e quelle di marchi internazionali come Decathlon e Calzedonia/Intimissimi.

Solo le iniziative di COOP “Naturaline” e Vaude “Green Shape” hanno ottenuto buoni risultati, al contrario di quelle di tutte le altre aziende esaminate. I marchi si vendono quindi per quello che non sono, ed evitano di pubblicare informazioni che permettano di valutare l’effettivo impatto ambientale. Ciò genera confusione nelle persone, spinte a credere di acquistare prodotti sostenibili ma che in realtà non lo sono. 

Benetton e Calzedonia/Intimissimi, i marchi italiani presi in esame nell’indagine, non ottengono buoni risultati. Il primo deve fornire molte più informazioni per riuscire realmente a “produrre meno e meglio”, oltre a dover rivedere la propria definizione di “cotone sostenibile”. Calzedonia invece deve passare dalle parole ai fatti rendendo veritiere le dichiarazioni sulla tracciabilità delle filiere e adottare un sistema che permetta di gestire le sostanze chimiche pericolose.

“Il fast fashion non può essere definito sostenibile. Le aziende hanno il dovere di allontanarsi da modelli di business basati su un’economia lineare e promuovere una vera economia circolare che riduca gli impatti sociali e ambientali. Allungare il ciclo di vita dei vestiti deve essere la priorità del settore, solo così eviteremo una moda basata sul greenwashing”, conclude Ungherese.