Secondo i dati Confida, l’associazione italiana di distribuzione automatica, il caffè è il protagonista delle consumazioni italiane ai distributori automatici: nel 2023 sono stati quasi 2,3 miliardi quelli bevuti davanti ad una vending machine. Dividendo la cifra per il numero di abitanti in Italia (58.760.000 nel 2023) siamo a quasi 40 consumazioni a testa in un anno.
Guardando il momento della pausa caffè con un occhio da “rifiutologi”, concentriamoci sull’impatto ambientale di un gesto così diffuso: i bicchieri in plastica non rientrano nell’elenco dei prodotti monouso banditi dalla Direttiva Sup, ma le palette sì. Di conseguenza, le vecchie palette in plastica sono bandite. Tuttavia, se ci fermiamo a prendere un caffè alla macchinetta, noteremo che le palette in uso sono del tutto simili a quelle pre-Sup o, in alcuni casi, recano la dicitura “REUSE” stampata sopra. Il che significa che sarebbero certificate come riutilizzabili, quindi “in regola” con la Direttiva. Ma in che modo le palette verrebbero effettivamente riutilizzate?
Il caso ricorda molto quello delle stoviglie “pseudo-riutilizzabili”, ma con alcune specificità. La paletta per il caffè viene somministrata in un luogo pubblico e la struttura che ospita un distributore è classificabile al pari di un bar, con gli stessi obblighi di legge che ne conseguono. Questo perché si tratta di somministrazione di alimenti al pubblico e per veicolare questa somministrazione, nel caso di una bevanda calda, c’è bisogno di un bicchiere e della paletta.
Tuttavia a differenza delle stoviglie, il caso delle palette del caffè è più complesso. Perché? Se per quanto riguarda le stoviglie “pseudo-riutilizzabili”, nessuno può sapere se a casa i consumatori le lavino e le riutilizzino, qui invece la situazione è diversa: si tratta dell’utilizzo di un manufatto in luogo pubblico. E il riutilizzo non è realizzato. Tutto avviene alla luce del sole: basta recarsi in un qualsiasi luogo pubblico (ospedale, scuola, etc.) e rendersi conto che il riutilizzo delle palette non avviene. Vengono inoltre utilizzate ancora le vecchie palettine di plastica. Si tratta, purtroppo, di una prassi consolidata di tutto il settore. Questo è l’elemento eclatante.
Esistono casi pratici di riutilizzo? Sul mercato esistono impianti di lavaggio, ma l’installazione di una macchina per la sanificazione richiederebbe un investimento maggiore, maggiori consumi di acqua e la conseguente manutenzione dell’impianto. Risulterebbe quindi molto più onerosa la somministrazione del prodotto in questo modo.
La direttiva SUP sulla plastica monouso, nella sua formulazione italiana, contempla l’uso di materiali biodegradabili compostabili. Come ci hanno spiegato alcuni operatori del settore, nella fase iniziale di applicazione della direttiva, gli operatori erano passati alle nuove tipologie di materiale. Si erano molto diffuse le palette in legno, una tipologia di prodotto che arrivava principalmente dalla Cina. C’erano anche quelle in carta rivestita. C’erano, e ci sono, quelle in bioplastica compostabile. La scelta iniziale del legno era stata dettata da una scelta economica. Si è poi constatato che le palette in legno davano problemi tecnici (non cadevano correttamente nel bicchiere) e anche dal punto di vista sanitario c’erano criticità (sviluppo di muffe per via di vapori e delle temperature nella preparazione della bevanda). A quel punto il mercato ha virato verso soluzioni alternative ma invece di indirizzarsi verso il biocompostabile, è tornato alla plastica tradizionale “pseudo-riutilizzabile”. La maniera più semplice ed economica per aggirare la norma. E così, come avvenuto per le stoviglie, i manufatti in plastica tradizionale sono usciti dalla porta e sono rientrati dalla finestra.